29 marzo 2024
Aggiornato 10:00
Fino all’8 novembre

Al Verdi. Una “Serva padrona” vestita di nuovo

Un piccolo gioiello dell’opera buffa in una versione inedita e animata da una regia dinamica e creativa

TRIESTE - Una ‘Serva Padrona’ in questa versione, di certo non l’avete mai vista. La partitura, infatti, non è mai stata messa in scena prima e viene bandita all’asta come una rarità, proprio all’inizio della rappresentazione. Il pubblico può partecipare e offrire quanto desidera: è l’artifizio introduttivo del regista Oscar Cecchi, nel riuscito intento di coinvolgere un pubblico di ogni età (tanto più che lo spettacolo ha in previsione numerose matinée in orario scolastico). Alla fine, in barba al pubblico delirante, è lo stesso direttore (Carmine Pinto) ad accaparrarsi lo spartito offrendo un milione di sterline, e ovviamente lo mette in scena subito dopo.

Una partitura inedita
Al di là della finzione, questa partitura non è stata mai, di fatto, rappresentata. È un rimaneggiamento di Ottorino Respighi per i Ballets Russes di Serge Djagilev nel 1920. Questa versione comprende anche una parte di coro mentre originariamente Giovanni Paisiello aveva composto il suo intermezzo buffo per due cantanti e un mimo. Tre, i personaggi: Uberto (interpretato da Nicolò Ceriani), un ricco e attempato signore, Serpina (Elisa Verzier), serva impertinente, e Vespone (Giulio Cancelli), valletto di casa.

La storia
La trama è affine a quella di numerose opere buffe: Serpina riesce a farsi sposare dal suo signore, divenendo padrona a sua volta. Il collega Vespone la aiuterà nell’intento, si traveste da soldato pretendente e chiede a Uberto una dote spropositata minacciandolo con la spada. Il padrone sposa la serva immediatamente per salvare se stesso e il suo denaro.
Sembrerebbe una consueta opera buffa, mutuata dalla commedia dell’arte e per questo animata da caratteri-macchietta, ma osservando più da vicino ci si rende conto che l’assetto è più complesso. Serpina non è la Rosina innamorata del ‘Barbiere di Siviglia’, per citare un’altra opera buffa, fa un preciso calcolo di riscatto sociale e invece di sfuggire al suo ‘nemico’, lo sposa. Il rapporto con Uberto è intricato: nel primo quadro li vediamo soltanto bisticciare, ma il personaggio è ben conscio del sottotesto: ammette e riconosce che rimbrotta la sua serva solo perché la ama. Un personaggio in contatto col suo inconscio (la psicanalisi sarebbe arrivata due secoli dopo), di un’altra pasta rispetto, ad esempio, all’idiota don Cassandro (suo corrispettivo baritonale ne ‘La finta semplice’ di Mozart). Infine Vespone, parte muta e remissiva, è in realtà uno scaltro arrampicatore, capace di rivoltarsi contro il datore di lavoro, seppur recitando una parte.

Un’opera ‘resistente’
Personaggi molto coinvolgenti e tridimensionali per essere stati concepiti nel settecento, infatti l’opera continua a essere rappresentata e seguita, molto più di tante altre appartenenti al genere.
«Il successo della ‘Serva Padrona’ è anomalo – spiega il regista Oscar Cecchi – la si mette in scena di rado eppure non si smette di farlo. Resiste nei secoli con poche rappresentazioni l’anno in Europa e nel mondo. Per questo ho inserito nella regia il leitmotiv del cactus». Ci sono cactus di diverse dimensioni, il primo appare all’inizio come arredo, nella scena finale e corale ogni personaggio brandisce una pianta grassa in miniatura. «Alcune specie di cactus possono vivere fino a trecento anni, nutrite con poche gocce d’acqua alla settimana. Questa opera funziona allo stesso modo, ha davvero trecento anni, ma per mantenerla in voga bastano pochissime rappresentazioni. La gente la ricorda ugualmente».
L’opera buffa, nata nel XVIII secolo a Napoli, spesso prevede un allestimento e un cast esiguo, ma qui assistiamo a una versione arricchita di elementi inediti. L’aggiunta del coro dinamizza e coinvolge, il pubblico viene spesso chiamato in causa, tanto che Vespone cerca una moglie al padrone tra le signore in platea.
Un allestimento, quello del Verdi, che porta a termine una missione non facile: far scattare una sorta di imprinting nelle nuove generazioni. Perché la passione per la grande musica va instillata nei primi anni di vita, solo così diventa una pianta, bella e resistente, in mezzo a un deserto culturale in espansione.

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