18 aprile 2024
Aggiornato 23:30
Una star mondiale a Trieste

“Facile è una parola fatta per i morti”. Intervista con Rutger Hauer

L’attore olandese, diventato icona della fantascienza con Blade Runner, parla (e non parla) del suo cammino verso il successo e di come un monologo è diventato leggenda

TRIESTE - Rutger Hauer viene bombardato dai flash prima di riuscire a sedersi: «Wow, mi sento come King Kong!» forse una battuta improvvisata, forse ripetuta per la centesima volta. Con un grande attore non si sa mai a cosa credere. Eppure tutto quello che dice pesa come una verità universale, la  resa è sempre quella del mitico monologo, di quelle cose che noi umani non riusciamo neppure a immaginarci. Indossa una felpa di pile multicolore, un berretto di lana e dei calzini millerighe bianchi e neri, e nessuna di queste cose scalfisce il suo magnetismo.
I panni non sono importanti, per lui, in più di ottanta pellicole ne ha vestiti diversi. Da quelli futuristici di Ridley Scott agli stracci del senzatetto di Ermanno Olmi ne ‘La leggenda del santo bevitore’, fino al vescovo perverso di ‘Sin City’.
Il 4 novembre, Rutger Hauer ha ritirato il premio Urania d’argento alla carriera, per essere diventato un’icona della fantascienza proprio con Blade Runner e il personaggio di Roy Batty. L’attore, come il replicante, sorride con un lato della bocca e mi guarda di sbieco, con quegli occhi che hanno visto cose inimmaginabili.

Lei si è imbarcato in una nave cargo appena adolescente, girando il mondo e sprezzando ogni autorità. Dal 1985 qualcosa è cambiato, ha smesso di premere l’acceleratore, ha iniziato uno dei matrimoni più longevi dello star system e ha dichiarato di aver trovatola pace interiore. Cosa le è successo in quel periodo?
«Ho smesso di essere un’adolescente. 41 anni è un buon momento, non ti sembra? L’adolescenza è quando sei troppo impegnato a scoprire ciò che non vuoi, invece di guardare a ciò che vuoi. Ho semplicemente cambiato passo di danza, un ritmo più dolce. In quel periodo giravo ‘The Hitcher’, una parte piuttosto violenta, invece era il mio periodo più tranquillo. Nonstante tutto era un film con un ritmo quasi comico, ed era proprio il ritmo della mia vita. Tutto è cambiato in un’attimo, un’intuizione, come in tutte le migliori decisioni che ho preso».

Mi dica qual è il ruolo di cui si sente più soddisfatto. E poi quello in cui si è sentito più inadeguato.
«Dimmi (guardandomi negli occhi con gelo robotico, ndr) perchè mai dovrei risponderti?»

Non lo faccia, mister Hauer. Mi dica invece qual è stato il ruolo più difficile.
«Indovina»

Lady Hawke. Troppo commerciale per il suo temperamento.
«Ti aiuto io. È stato proprio Blade Runner. È la risposta a entrambe le domande: il più bello e il più difficile. Perché ‘Facile’ (lo dice in italiano, ndr) è una parola fatta per i morti. Quello di Roy Batty è un ruolo complicato, più umano degli umani stessi, perché per Ridley i replicanti sono migliori degli uomini. La verità è che se un attore pensa di poter interpretare più del 50 percento di un personaggio è un idiota. L’altro 50 percento lo costruisce il pubblico, il regista, i montatori. Io mi ispiro all’architetto Frank Gehry, lui modella i suoi edifici usando dei fogli accartocciati e strappandone dei pezzi. Poi butta via tutto, e il giorno dopo ricomincia. Io costruisco i ruoli allo stesso modo».

Quindi anche Roy è un foglio accartocciato?
«Certo. Un personaggio non è che un’insalata di caratteristiche. Cosa sapevo io di Roy? Che amava la poesia, aveva il senso dell’umorismo, era sexy ma non gli serviva, perché i replicanti non si riproducono. Con pochi elementi io abbozzavo uno schizzo, ogni giorno diverso. La sua morte l’abbiamo decisa così, lui che si spegne e si arrende lentamente. Dopo le morti teatrali dei suoi compagni, dopo la tensione narrativa degli inseguimenti, lo spettatore si aspetta una finale d’azione, invece si scioglie davanti a una morte dolce e disarmante. E poi quella colomba, che fu un’idea mia. Era infreddolita dalla pioggia e quando l’ho lasciata andare si è messa a razzolare per terra, mandando al diavolo la scena più importante della mia vita. Abbiamo risolto col montaggio. Gli imprevisti rendono tutto più eccitante, ad esempio quando i tuoi problemi personali sono insostenibili, e si fondono con la recitazione. Accadono cose interessanti quando la tua vita privata straripa nel lavoro».

Quindi si è divertito a scrivere la sua biografia?
«No. L’ho fatto per beneficenza. Il libro non ha guadagnato quasi nulla, quel poco l’ho donato alla ‘Starfish Association’, che ho fondato per le donne e bambini malati di Aids. In questo mi ha ispirato il vostro giornalista Mino D’Amato, abbiamo iniziato in Romania costruendo un villaggio dove questi bambini, molti dei quali orfani, avrebbero trovato le cure necessarie. Abbiamo fatto costruire una piscina apposta per loro, perché i fiumi in zona sono inquinati e le piscine non ammettono bambini sieropositivi. Abbiamo aperto il villaggio con una grande inaugurazione, c’erano animatori e clown, queste cose le seguo di persona e da vicino».

Ancora una volta mi sembra di essere in Blade Runner. Rutger Hauer è uno che ti sfida a viso aperto, crea la tensione narrativa, ma alla fine ti mostra l’umano oltre l’umano, e tutto si scioglie. Come lacrime nella pioggia.